Le ibridazioni che caratterizzano molti recenti romanzi sono davvero interessanti: impossibile ormai definire un genere, perché in un libro riescono a convivere e ad alternarsi differenti registri, diverse modalità espressive, in una parola diversi generi. Ecco allora l’impossibilità di definire il genere di appartenenza del lungo e coinvolgente “Il traditore di Versailles” di Arnaud Delalande: spy-story, romanzo storico, feuilleton di tipo ottocentesco, romanzo di cappa e spada, thriller, noir, ma soprattutto nel testo molta letteratura francese, filosofia, storia dell’arte, quasi che l’autore ci volesse comunicare la propria grande competenza storico-letteraria e gli studi seri e vasti che gli hanno consentito di innestare la sua narrazione su una solida base artistico-letteraria. Non è un caso che al romanzo sia acclusa una ricca bibliografia di fonti consultate. Questo, però, non appesantisce la narrazione, che corre via fluente dietro le figure dei due antagonisti-protagonisti: il veneziano Pietro Viravolta, esiliato dalla laguna e riparato con la bellissima moglie Anna alla corte di Versailles, dove infiniti intrighi si svolgono intorno al letto di morte di Luigi XV, e “Il favolista”, l’enigmatico personaggio di cui apprendiamo man mano le gesta, le alleanze, i progetti criminosi, il doppiogioco. Costui costruisce fin dalle prime pagine del romanzo una favola che ha per obiettivo finale la distruzione della monarchia francese e dei sovrani giovanissimi, Luigi XVI e Maria Antonietta, piano diabolico che di volta in volta annuncia servendosi delle favole di Jean de La Fontaine, riscritte metaforicamente per alludere ai diversi personaggi che intende eliminare.
Ecco allora che nel libro ritroviamo intere pagine di citazioni dei testi del grande autore francese, adattate alla trama complessa che Delalande va costruendo. Morti atroci vengono organizzate dal favolista per i personaggi che si oppongono al suo progetto delirante: la giovane Rosette muore mentre si sforza di ricordare “Il lupo e l’agnello”, lo scudiero Landretto subirà la fine mimando “Il corvo e la volpe”, lo stesso Viravolta sfugge in modo rocambolesco alle grinfie di un leone, ospite del serraglio di Versailles, dove il favolista ha messo in scena “Il leone e il topo”per eliminarlo. Insomma tutta l’opera di La Fontaine ci viene riproposta a suggerire le varie tappe del percorso criminale che il Favolista porta avanti contrastato solo da Viravolta, che sotto lo pseudonimo di “Orchidea nera” e fornito di tutta la tecnologia che il secolo dei Lumi poteva offrire, antesignano del moderno James Bond e dei suoi mirabolanti oggetti di difesa, sarà l’unico in grado di fermare un’azione che avrebbe cambiato la storia, non solo europea. Al di là del racconto e della complessa trama, il libro è molto interessante per la ricostruzione storico-artistica di un pezzo di storia francese vista dall’interno della reggia di Versailles: ecco allora il backstage di quel lusso eccessivo: dietro il palazzo incantato una miseria e una sporcizia devastante ci mostrano il prezzo che la Francia pagava al privilegio di pochi, mentre una smisurata pletora di servi, guardie, cuochi, sguattere, parrucchieri, profumieri, modiste, prostitute, venditori, lattonieri, idraulici, facchini, giardinieri, camerieri, guardiani strisciavano in silenzio appagati da un incarico, un sorriso, un atto di benevolenza dei potenti. L’autore talvolta ci fa avvicinare a questi grandi personaggi, sembra nutrire simpatia per la giovane arciduchessa austriaca appena divenuta regina di Francia, sulla quale aleggia già un destino atroce, e sul re impacciato e accaldato che vive la giornata dell’incoronazione nella cattedrale di Reims come un incubo, ignorando che sulle colline sovrastanti è appena stato sventato dall’eroico Viravolta un attentato di portata devastante. Straordinaria poi la parte filosofica attribuita ai giardini della reggia: ogni sentiero, ogni boschetto, ogni fontana, ogni statua erano stati progettati da Le Notre per rimandare a significati simbolici di grande impatto emotivo, e lo scrittore ci conduce attraverso quei luoghi magici riesumando quei significati e dando loro corpo nell’economia della narrazione. Poi tanti personaggi storici si affollano nei corridoi della reggia e nelle strade di Parigi: la Du Barry, il poeta Beaumarchais, il chimico Lavoisier, e ancora vengono citati Casanova, Madame de Maintenon, la Pompadour, il re Giorgio III d’Inghilterra, la zarina Caterina, l’imperatrice Maria Teresa, tutti insieme a formare quell’affresco storico così affascinante che fu il periodo che precedette le Rivoluzioni americana e francese.
Particolare attenzione l’autore pone alla scrittura. Ecco un brano tratto dal capitolo dedicato alla Galleria degli specchi di Versailles: “Incastonati nelle cornici dalla purezza cristallina, gli specchi formavano un caleidoscopio straordinario, ripetendo all’infinito la posizione dei ballerini armati. Quante violenze e quanti splendori avevano già visto passare? Essi avevano colto l’immagine di un Re Sole ancora giovane e innamorato, poi appesantito da quella sua aura assurda, che infangava il mondo di una gloria che superava lui stesso, mentre la vecchiaia gli incurvava colonna e spalle; avevano risposto vibrando del passo cadenzato di Racine che, col manoscritto di Ester sotto il braccio, si dirigeva negli appartamenti di Madame de Maintenon….” Leggere questo romanzo è come rileggere personaggi noti, ma che risultano vivi davanti ai nostri occhi, quasi fossimo davanti a film sontuosi come Vatel di Joffé o Maria Antonietta di Sofia Coppola. Delalande ha certamente centrato il suo obiettivo, facendo di un momento drammatico della storia del suo paese un romanzo che ha tutte la caratteristiche della suspence che i lettori del genere richiedono e tutta la densità della cultura che lo arricchisce.
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