Quando ho cominciato a leggere questo nuovo romanzo di Carlo D’Amicis, dalla inquietante copertina, un telespettatore/clown, ho pensato subito ad un libro che avevo letto da poco e che mi aveva colpito, “Il corpo del capo” di Marco Belpoliti (Guanda), e mi sono piacevolmente stupita nel vedere che proprio quel libro era stato uno degli spunti da cui si era mosso l’autore nel lungo racconto di cui solo apparentemente è protagonista la famiglia Spinato da Matera, ma che a ben vedere è la rappresentazione comico/drammatica della evoluzione dell’immagine e del corpo di Berlusconi stesso e della sua decadenza fisica e morale. Decadenza che viene raccontata attraverso le vicende di costume che hanno portato il nostro paese a vivere per e con la televisione, pubblica e commerciale, democristiana e socialista, in bianco e nero e a colori, di servizio e di intrattenimento, noiosamente colta e orribilmente trash, e alla fine ad immedesimarsi completamente con essa. La narrazione avviene attraverso un lungo dialogo che inizia nei primi anni sessanta tra un figlio, Canio Spinato, ragazzino ribelle ai noiosi e ripetitivi intenti pedagogici e il padre, l’intransigente moralista Filippo, democristiano doc, maestro elementare innamorato di Dante e di San’Agostino e imprevedibilmente vincitore di un concorso che lo porta a Roma, a lavorare in Rai, proprio per quella televisione che lui ritiene pericolosa, ma che, come ha scritto nelle osservazioni per l’Ufficio personale, nelle mani giuste potrebbe elevarsi a formidabile progetto educativo. Così Canio cresce a Matera con la madre e la numerosa tribù patriarcale di nonno, zie, cugini, vivendo un’adolescenza spensierata in cui il vero progetto sembra quello di volere piacere, voler divertire, avere un palcoscenico su cui esibire la sua voglia di sedurre e di essere amato. Battute fulminanti, barzellette prendono il posto dello studio; mentre la compagna Graziella al primo banco, vera secchiona, studia e impara, lui prepara la sua carriera di superficiale e allegro intrattenitore. In quegli anni Pasolini gira il Vangelo secondo Matteo tra le colline aride di Matera, ma l’incontro col celebre regista- intellettuale non scalfisce la sua adorazione per la tv, di cui è un divoratore onnivoro: Carosello, La fiera dei sogni, Canzonissima, Vetrina di un disco per l’estate, Dadaumpa, Tic-tac, Studio Uno, Leggerissimo sono il suo cibo quotidiano….e poi le donne del video che diventano le sue innamorate, destinatarie di lettere e sogni, Maria Giovanna Elmi, Solvi Stubing, Lola Falana, le Kessler, Loretta Goggi. Mentre Canio vive con questi modelli che ne segnano il percorso di crescita durante tutta la settimana, il sabato all’arrivo del padre da Roma deve celare i suoi gusti e le sue passioni: gli unici programmi ammessi dai draconiani principi paterni sono Non è mai troppo tardi del maestro Alberto Manzi di cui Filippo Spinato si sente quasi l’alter ego, e qualche sceneggiato tratto dai classici come Il mulino del Po…. La convivenza tra padre e figlio arriva nel tempo ad un’ insanabile frattura: Canio lascia gli studi, abbandona l’ascetico quartierino di Ponte Milvio che è costretto a condividere con suo padre fuggendo a Milano dove, dopo aver superato innumerevoli ostacoli, riesce a diventare venditore di pubblicità per la nascente industria televisiva dell’imprenditore Berlusconi. La descrizione del rapporto di amicizia fra il brutto arrampicatore materano e il cavaliere in ascesa irresistibile è la parte più interessante del romanzo, e anche la più amara. Attraverso espedienti narrativi quali il dialogo serrato fra diversi personaggi, il flashback, il continuo alternarsi di presente e passato, D’Amicis ricostruisce puntigliosamente un pezzo di storia italiana riuscendo a far emergere le ragioni per cui una gran parte della nostra società ha finito per identificarsi con i sogni televisivi e pubblicitari incarnati in modo così efficace dall’impero mediatico divenuto forza politica e di governo. I rapporti umani falliti tra padri e figli, tra mogli e mariti, tra amici e colleghi sono le macerie intorno a cui si aggira Canio, un pagliaccio triste che diviene in alcune pagine particolarmente efficaci la controfigura del suo padrone, un Berlusconi visto nella sua parabola discendente fino al farsesco finale. Interessante l’impasto linguistico che permette all’autore di usare diversi registri comunicativi in modo sempre pertinente: ecco l’uso del dialetto calabrese sempre accuratamente tradotto in un compito italiano; ecco il linguaggio paludato e forbito del padre Filippo, pronto ad interloquire con personaggi influenti in salotti democristiani che fanno ripensare al film “Il divo”di Sorrentino; ecco lo squallore degli studi di Cologno Monzese, dove si aggirano comparse, veline, vallette, comici, imitatori, aspiranti a posti minori dello spettacolo televisivo e maestranze che ostentano il dialetto meneghino con arrogante ignoranza. Compaiono nel romanzo personaggi celebri del mondo dello spettacolo in cui tutto il racconto si svolge: c’è Luigi Comencini che gira il suo Pinocchio sotto gli occhi allibiti dell’ispettore di produzione Rai, il rigido Filo Spinato, soprannome che gli calza perfettamente, costretto ad assistere alle intemperanze linguistiche del piccolo protagonista che solo la fata Lollobrigida, ricoperta di orribili vaporosi tulle, riesce a domare; c’è la galleria d’arte romana dove si aggirano Moravia, Elsa Morante e il costruttore romano Marchini; ci sono Giulio Andreotti e Cesare Zavattini, Antonio Ricci e Moana Pozzi. La location che Carlo D’Amicis ha scelto per il suo bel romanzo è lo scenario in cui viviamo immersi, tutti, ormai da troppi anni, e al quale tragicamente ci siamo in parte assuefatti: merito del libro è di esserci tutti riconosciuti in alcuni di quei bruttissimi personaggi e delle situazioni incresciose da cui la storia ci fa prendere le distanze con disgusto. Un libro di denuncia sociale, come si diceva un tempo, di grande e sconcertante attualità, che si legge con interesse e con un leggero senso di ansia: cosa abbiamo fatto perché tutto questo non si realizzasse? La figura del magistrato, Graziella, con cui Canio intraprende l’unico rapporto autentico nella parte conclusiva del racconto, è forse la chiave di lettura più profonda per comprendere il senso dell’intero romanzo. | |