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Attualità
Articolo de 'Il messaggero' di Mario Ajello
di Elisabetta Bolondi
di MARIO AJELLO
La forza di un Paese, la sua cifra civile, la misura del suo significato nel mondo - soprattutto nell’età della globalizzazione - poggiano su un patrimonio storico e culturale condiviso. E’ quello che dà identità, cioè senso, a una nazione, fornisce coscienza collettiva a un popolo ed è il portato della sua storia, delle sue grandezze e dei suoi errori. Tutto questo non può essere sciupato dalle dichiarazioni del governatore veneto, il leghista Luca Zaia, che ha subito lanciato un allarme di cui non si sentiva il bisogno e che suona quantomeno intempestivo: «E’ una vergogna che vengano dati soldi per Pompei e non per il Veneto» (al quale ieri sono comunque stati elargiti).
Parole così rappresentano il frutto di questi anni in cui troppo spesso si sono lasciate correre espressioni irricevibili. Troppo spesso la parola nazione è stata svilita nell’indifferenza generale. Il Sole di Adro nelle adunate di partito e nelle scuole italiane ha preso il posto del tricolore; s’è cercato d’imporre il Dio Po a scapito di tradizioni e di credenze più autentiche e meno posticce; l’inno di Mameli è stato offuscato nelle adunate padaniste dai cori lumbard; l’egoismo territoriale ha provato a scalzare il sentimento di comunanza; il verde s’è preso lo spazio del tricolore dove ha potuto; le radici sono diventate fattore divisivo per chi vuole dividere e il federalismo invece di essere inteso come nuovo patto rischia di diventare una nuova barriera nelle mani di agitatori irresponsabili. Un’Italia così è la negazione dell’Italia.
C’è da chiedersi: che cosa unisce di più questo «paese troppo lungo» - come gli arabi durante il medioevo chiamavano la nostra Penisola, allora poco rilevante perchè troppo divisa - se non la fortuna di potersi riconoscere in una grande civiltà universale, qual è stata quella romana di cui Pompei è un fulgido esempio ancora capace di parlare al mondo? La civiltà romana, compreso il suo potere economico che passava anche dalle attività commerciali e dall’industriosità dell’antica Pompei, rappresenta non in maniera retorica ma praticissima la nostra possibilità di giocare tuttora un ruolo di primo piano nella coscienza collettiva dell’Europa e degli altri Continenti e di stare nei gradini più alti della scala dei valori su cui si giudicano i popoli e le nazioni. Sciuparla a colpi di spropositi da malafede ideologica o di teatrini propagandistici fin troppo colpevolmente tollerati, o comunque non capire la portata di questa grande civiltà, è il segno di quanto pericolosamente il bacillo disgregazionista stia diffondendosi fra di noi, senza che neppure ce ne accorgiamo.
Le emergenze italiane sono tante. Ma la prima esigenza - verrebbe quasi da dire il primo dovere morale, specie adesso che celebriamo i 150 dell’epopea del Risorgimento - dev’essere quella di mettere in sicurezza il valore fondante e non negoziabile dell’Unità d’Italia. Il nostro futuro sta tutto lì.
11-11-2010